Volli, e volli sempre, e fortissimamente volli.

Vittorio Alfieri

Vittorio Alfieri

Questa frase è una delle poche cose che ricordo del primo corso di letteratura italiana, un corso monografico sulla figura e l’opera di Vittorio Alfieri. Non me ne vogliate, ma fu un esame barbosissimo. Eppure, quelle parole, scritte in una lettera all’amico Ranieri* per esprimere la propria determinazione di diventare autore tragico, mi sono rimaste molto impresse.

C’è chi a alla traduzione ci giunge per caso, c’è chi se ne occupa come passatempo. Ma ora come ora, chi traduce per mestiere, deve “fortissimamente volerlo”.

Mi ricordo di quando mi misi a tradurre una canzone delle Spice Girls, Wanna Be. Avevo dieci anni e mi avevano appena regalato il mio primo CD (com’erano belli i cd negli anni ’90, con la superficie liscia che luccica con tutti i colori dell’arcobaleno!). A dieci anni volevo già fare la traduttrice – be’, volevo anche aprire una cartoleria e, per un certo periodo della mia infanzia, mi sono vista come una casalinga che passa le giornate dedicandosi alla cura dei figli, degli animali e del giardino. Ma in ogni caso, a parte qualche deviazione, sotto sotto ho sempre saputo che mi sarei iscritta alla scuola interpreti e traduttori.

Mi ricordo che a 19 anni, tra la conclusione del liceo linguistico e il primo anno di scuola interpreti, lessi una raccolta di racconti di Ali Smith, Altre storie (e altre storie)**, rimanendone folgorata. Nonostante le mie velleità di traduttrice, fu in effetti la prima volta che mi soffermai davvero a pensare al lavoro del traduttore e che cercai il suo nome tra le prime pagine del libro: Federica Aceto. “Questa donna è un genio” pensai. E siccome in una nota Aceto ringraziava l’autrice per la disponibilità, capii che il traduttore non se ne sta per forza zitto e buono – invisibile – dietro allo schermo del computer, ma che ha anche la possibilità di incontrare l’autore, o comunque di mettersi in contatto con lui. E mi sembrò un gran figata (scusate il termine).

Perché queste riflessioni? Perché a volte capita di smarrire la via. Perché ora è molto più difficile realizzare i propri sogni, soprattutto se riguardano il mondo dell’editoria. Perché tra i corsi di traduzione che sbocciano come margherite a primavera, dilettanti allo sbaraglio, editori che non pagano o che pagano in ritardo, il mercato è diventato sempre più competitivo e sembra che i sogni non bastino più. E quindi ogni tanto è dovere ricordare a se stessi le parole di Alfieri, quel “fortissimamente volli”, e anche ricordare i desideri che avevamo da bambini.

*Lettera responsiva a Ranieri de’ Casalbigi, 6 settembre 1783

** Ali Smith, Altre storie (e altre storie), Minimum Fax, trad. di Federica Aceto

Zerocalcare e il fumetto tra realtà e finzione

10a edizione del Festival Komikazen

10a edizione del Festival Komikazen

Un mese fa, a Ravenna, si è tenuto Komikazen, Festival del fumetto di realtà che si ripete ogni autunno da 10 anni e che a ogni edizione propone incontri, workshop e mostre. Io ho assistito all’incontro con GipiRoberto Recchioni, seguito dall’intervista di Elettra Stramboulis, tra gli organizzatori del festival, a Eddie Campbell. Ne parlo solo ora perché di recente sono andata alla presentazione di Dimentica il mio nome, ultima fatica del fumettista Zerocalcare, che si è tenuta martedì 11 novembre alla Feltrinelli di Bologna Piazza Ravegnana e ho potuto così collegare alcuni dei temi trattati, nonostante la presentazione sia stata, ahimè, troppo corta perché Zerocalcare, sempre disponibile e generoso con il suo pubblico, doveva produrre circa 200 disegnetti per i suoi tenaci fan. Le folle che si creano per le presentazioni del fumettista romano e le file chilometriche per averne un autografo e un “disegnetto” sono diventate ormai proverbiali. Come ha detto una passante, incuriosita dalla folla, “è bello che uno che ha scritto un libro riesca a fare così tante persone.”

Zerocalcare, Dimentica il mio nome, Bao Publishing

Zerocalcare, Dimentica il mio nome, Bao Publishing

Ma perché Zerocalcare piace così tanto e raduna così tante persone? Forse perché chiunque può riconoscersi nelle sue storielle comiche che rappresentano situazioni di vita quotidiana, ma, allo stesso tempo può riconoscersi nelle sue angosce e paranoie. Il fumettista di Rebibbia, infatti, ha il merito di alternare la malinconia alle risate: il suo tratto distintivo è quello di raccontare situazioni quotidiane divertenti e di fare autoironia sulle proprie idiosincrasie, e di rappresentare allo stesso tempo un’angoscia e un senso di precarietà universali. Alcuni lo ritengono il portavoce della generazione nata negli anni ’80, anche se lui non gradisce affatto questa definizione e anzi, ritiene del tutto impossibile che gli episodi che racconta possano riassumere un’intera generazione. Tutto questo Zerocalcare lo fa, sia sul blog che nei suoi graphic novel, mettendosi in gioco in prima persona, partendo da se stesso, dai propri sentimenti e dalla propria realtà: gli amici, la famiglia, Rebibbia, che è il suo quartiere, i centri sociali, il punk, mescolando il tutto con elementi della cultura pop, dai cartoni animati alle serie tv, che lo accomunano a tutti i suoi coetanei.

Di sicuro Zerocalcare ha il merito di aver avvicinato al fumetto quella parte di pubblico che non ha mai letto fumetti, o ne ha letti pochi. E questo è un bene, ma può essere anche un male, perché il lettore finisce per fermarsi lì e ignorare che oltre a Zerocalcare c’è ovviamente l’universo intero, dai fumetti di genere a quelli “di realtà”. Io, per esempio, non sono mai stata troppo attratta dai fumetti, da piccola non ho mai letto Topolino né tantomeno i fumetti della Marvel, ma tuttalpiù mi facevo delle gran scorpacciate di Peanuts. In età adulta mi sono poi avvicinata al mondo dei graphic novel grazie al capolavoro Maus di Art Spiegelman.

Ma cosa vuol dire graphic novel? Ormai sembra che usare il termine fumetto sia un understatement e che rileghi un lavoro a una dimensione strettamente di genere. Da nerd, insomma. Al contrario, secondo Gipi, uno degli ospiti di Komikazen, in italiano il termine per parlare di graphic novel esiste: è fumetto, ed è un termine del tutto rispettabile. La differenza è che un graphic novel si smarca dalla dimensione seriale tipica del fumetto per diventare un’unità narrativa più breve e compatta, proprio come un romanzo, ma con disegni e balloon. Con un termine perfettamente italiano, un romanzo a fumetti. Il primo fumettista a sentire il bisogno di questa forma espressiva fu Will Eisner e più tardi il concetto di graphic novel è stato sdoganato dal successo universale di Maus.

Eddie Campbell

Eddie Campbell

Un graphic novel, dunque, proprio come un romanzo, può essere di genere (un fantasy, per esempio), così come può essere “di realtà”, concetto che, tuttavia, Eddie Campbell, durante l’intervista a Komikazen, ha prontamente decostruito, in barba alla tagline del festival. Perché infatti, ogni volta che si racconta una storia, essa perde la propria realtà, se ce l’ha mai avuta, e diventa semplicemente affabulazione. Poco importa se la materia trattata è la propria vita o quella altrui, come nel caso di Alec, la semi-autobiografia di Campbell in ben sette volumi. Una volta su carta, insomma, una storia è una storia, e quello che importa davvero è lo scopo di intrattenimento della letteratura, la capacità di far ridere o piangere e di rappresentare i sentimenti e l’universo umano.

La forza dell’ultimo fumetto di Zerocalcare sta proprio in questo: l’autore parte da se stesso e da una storia che riguarda la sua famiglia per mettere nero su bianco (e arancione) una storia che – poco importa in quanta parte sia reale – è capace di intrattenere e far ridere e piangere i lettori. Ne risulta un racconto estremamente compatto ed equilibrato, che passa con garbo dai momenti comici a quelli dolorosi, senza sfociare mai nel patetico. In questo ultimo lavoro, Zerocalcare ha dimostrato di saper creare un buon meccanismo narrativo, e ha raggiunto una perfetta sintesi tra la narrazione pura di Un polpo alla gola e la fiction di genere di Dodici e gli “stacchetti” comici che, con La profezia dell’armadillo e il blog l’hanno reso caro al grande pubblico. Ha inoltre affrontato un’ulteriore sfida, quella di raccontare il dolore della madre: infatti, un conto è raccontare i propri sentimenti, e in quel caso sa bene dove “mettere l’asticella”, altra questione è raccontare i sentimenti di una persona vicina. Durante la lunga gestazione di Dimentica il mio nome, che tratta di una storia di famiglia che riguarda la nonna materna, si è necessariamente confrontato con la madre, per sapere fino a che punto poteva spingersi, e lei gli ha dato piena libertà, raccomandandosi saggiamente di non chiarire cosa è vero e cosa no. In fondo, cosa importa sapere cosa è reale e cosa è inventato, se la storia funziona? Ecco allora che in una storia a sfondo autobiografico come Dimentica il mio nome compaiono volpi parlanti, e che in un fumetto che parla dell’olocausto (Maus) gli ebrei sono topi e i nazisti gatti. Perché qualsiasi elemento surreale diventa funzionale al racconto e a quello che l’autore voleva dire.

Il lavoro di Gipi, altro ospite di Komikazen e candidato al premio Strega 2014 con Una storia, si può paragonare a quello di Zerocalcare. Anche lui parte da elementi autobiografici, ma alla fine prende sempre le distanze da sé, tanto da non riconoscere più se stesso nelle storie che scrive e illustra. Perché il sé che diamo in pasto al pubblico non può essere un vero autoritratto, altrimenti si rischia di creare una caricatura. Ancora una volta, l’importante per Gipi è raccontare una storia che funzioni, e una storia funziona se l’autore parte dall’umanità che conosce, proprio come nel caso di Dylan Dog, come ricorda il suo attuale curatore Roberto Recchioni, che pur appartenendo al genere horror parla di un’umanità estremamente reale.

Gli appuntamenti libreschi dell’autunno

Liberi libriEccomi di nuovo sul blog dopo un’estate senza ferie. Se nemmeno voi siete andati in vacanza, spero che abbiate approfittato del tempo bizzarro per dedicarvi alla lettura e che siate carichi per un autunno ricco, come ogni anno, di eventi interessanti. Vediamo in breve quali sono gli appuntamenti che ci aspettano, per noi traduttori e per tutti gli amanti dei libri.

Il primo è il Festivaletteratura di Mantova, che, giunto alla maggiore età, non ha bisogno di presentazioni. Per cinque giorni la splendida Mantova si anima di incontri con gli autori, reading, concerti e laboratori, ospitando autori e artisti italiani e internazionali, emergenti e non. Tra i moltissimi eventi previsti segnaliamo Pagine Nascoste, una rassegna di documentari sulla scrittura e sugli scrittori. Imperdibile per noi traduttori è il translation slam tra Matteo Colombo e Anna Rusconi, arbitrato da Isabella Zani, durante il quale si metteranno a confronto la storica traduzione del Giovane Holden di Adriana Motti, di cui Anna Rusconi prende le difese, e la nuova traduzione di Colombo, pubblicata per Einaudi lo scorso maggio.

Forse meno conosciuto è invece Pordenonelegge, festival inaugurato nel 2000 e che si è espanso tantissimo, rendendo la città friulana una piccola capitale del libro. Il festival si terrà dal 17 al 21 settembre in vari luoghi della città e gli incontri sono gratuiti. Sono previsti laboratori per i bambini delle scuole elementari e incontri dedicati ai ragazzi delle scuole medie e superiori. Tra gli autori ospiti quest’anno, menzioniamo Andrea De Carlo, Marcello Fois, Michele Mari, Valeria Parrella, Paolo di Paolo, Mauro Corona, Vito Mancuso, Massimo Recalcati e, fresco di Premio Strega, Francesco Piccolo. Per il programma completo, veramente ricco, potete cliccare qui.

Il week end successivo, dal 26 al 28 settembre, si terrà la XII edizione delle Giornate della traduzione letteraria di Urbino, un appuntamento fisso per traduttori o aspiranti. Come ogni anno, professionisti della traduzione e dell’editoria offrono una serie di seminari su varie tematiche legate alla traduzione letteraria, senza trascurare gli aspetti più pratici come il contratto di edizione di traduzione. Tra i relatori di quest’anno ricordiamo Bruno Berni, Yasmina Melaouah, Anna Mioni, Franco Nasi e Martina Testa, ma per un elenco più completo, anche se non ancora definivo, rimandiamo al sito.

Dal 7 al 9 novembre ci aspetta il Pisa Book Festival, che al suo interno ospita il Centre for Translation, curato da Ilide Carmignani. Quest’anno offrirà anche il corso di scrittura creativa Barnabooth, tenuto da Sebastiano Mondadori.

Infine, dal 4 all’8 dicembre si terrà a Roma Più libri più liberi, fiera della piccola e media editoria.

Certo che sarebbe bello andare a tutti questi eventi… per ora mi accontento delle Giornate della traduzione, e poi si vedrà!

Lentezza e felicità. Incontro a Ravenna con Luis Sepúlveda

Quest’anno, come l’anno scorso, per motivi di lavoro e di studio, non sono potuta andare al Salone del Libro di Torino, e ho rosicato davanti alle foto e ai post entusiasti pubblicati dai colleghi più fortunati. Tuttavia, martedì scorso, il 13 maggio, mi sono presa una piccola rivincita andando all’incontro con Luis Sepúlveda e Pino Cacucci che ha aperto la prima edizione del Festival della Scrittura di Ravenna.

Luis Sepulveda

Luis Sepulveda

Arrivo con un buon anticipo all’auditorium del Palazzo dei Congressi di largo Firenze, e la sala comincia presto a riempirsi: ci sono bambini, adulti, anziani accorsi da ogni angolo della Romagna. Sepúlveda è senza dubbio un nome da tutto esaurito: autore di best seller come La storia del gatto e del topo che diventò amico, è amato da grandi e piccoli, perché con le sue storie e i suoi romanzi si rivolge a ogni tipo di pubblico.

Puntualissimo, alle 18.30, con la sala ormai gremita, sale sul palco Lucho, così chiamato affettuosamente dall’amico Pino Cacucci, scrittore italiano che ha viaggiato a lungo in America Latina e l’ha raccontata in diversi romanzi. Il filo conduttore della conversazione è la felicità, argomento dell’ultimo libro dello scrittore cileno, intitolato appunto Un’idea di felicità, scritto a quattro mani con Carlo Petrini, presidente di Slow Food. Un tema ampio e difficile da affrontare, e che può essere preso da diversi punti di vista, esaminandone sia la dimensione collettiva, e quindi la felicità intesa come giustizia sociale, sia una dimensione più personale, e quindi l’amicizia e la famiglia.

Dopo una breve introduzione di Cacucci, Sepúlveda, nel suo italiano spedito e condito

Un'idea di felicità, Guanda e Slow Food editore, 2014

Un’idea di felicità, Guanda e Slow Food editore, 2014

dalla musicalità del cileno e dai moltissimi calchi dallo spagnolo, ha parlato prima di tutto della genesi di questo libro, nato da una conversazione con Carlo Petrini a proposito della felicità. Il punto di partenza di questo dialogo è stato la lentezza, argomento dell’ultimo romanzo dello scrittore cileno, Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza. In numerose culture la lumaca è infatti il simbolo della lentezza e proprio per questo motivo è diventata il logo di Slow Food, per la quale la lentezza è un concetto fondamentale, in contrapposizione al fast food e quindi a favore di un’alimentazione e di uno stile di vita semplici e in armonia con la natura. La felicità è dunque strettamente legata alla lentezza e ai piaceri semplici. È innegabile che i ritmi a cui siamo sottoposti nel mondo moderno ci rubano un pezzetto di felicità, perché ci rendono inquieti e in costante ricerca, la ricerca di fare, di riuscire, di guadagnare.

La felicità dell’individuo, dunque, dipende anche in gran parte dalla società in cui vive, da quanto questa società è giusta e garantisce alle persone di poter vivere con dignità. A questo discorso si ricollega anche la la difesa dell’ambiente, il cui sfruttamento si ripercuote sulla vita della popolazione, sul lavoro e la salute. Sepúlveda ha portato a questo proposito alcuni esempi di sfruttamento indiscriminato dell’ambiente in America Latina e di come gruppi di popolazione si sono ribellati contro queste pratiche.

Cacucci si è poi collegato al tema della giustizia sociale per chiedere a Sepúlveda di parlare di Pepe Mujica, presidente dell’Uruguay, a cui Sepúlveda è legato dall’amicizia e dalla militanza politica. Lucho ha parlato di Mujica come di un uomo molto saggio e modesto, che non ha mai smesso di condurre la vita semplice che conduceva prima di diventare presidente, e che sta rendendo l’Uruguay un paese dignitoso. Mujica, dice, non parla mai di crescita, ma di “pobreza digna”, ponendola come punto di partenza per lo sviluppo economico. Mujica non ha come obiettivo primario la ricchezza, ma la dignità, e come presidente cerca di mettere il suo popolo in condizione di essere dignitoso e felice, e di costruire “in tutta lentezza, la società più giusta d’America”.

La conversazione con Sepúlveda, tra aneddoti e risate, è scivolata quindi su un piano più personale, e si è parlato di felicità da un punto di vista più intimo: la felicità che si trova negli altri, nell’amicizia e nella famiglia, nell’offrire e nel condividere. Si sa che i latino americani sono estremamente generosi con il prossimo, e sono anchedi buona forchetta, cosa che gli accomuna con gli italiani. In Cile, così come in Argentina, una delle tradizioni culinarie più affermate è “el asado”, più o meno la nostra grigliata. L’asado è un momento di allegria e condivisone con gli amici e i famigliari, in cui si gode di un piacere semplice come quello del cibo e allo stesso tempo dell’affetto, della convivialità e dello scambio di opinioni e conoscenza.

E a proposito dell’amicizia e del legame indissolubile che Sepúlveda ha da sempre con l’Italia, Cacucci ha chiesto a Lucho di parlare al pubblico di Tonino Guerra, grande poeta, sceneggiatore e artista romagnolo. Sepúlveda ha raccontato, con tono divertito e nostalgico, la grande generosità di Tonino Guerra, che, aiutandolo nella sceneggiatura di un film, ha condiviso con lui senza nessuna riserva la sua esperienza, il suo sapere e anche la sua focaccia, uno dei suoi piccoli piaceri quotidiani.

Parlando poi di poesia e letteratura, e in particolare della letteratura come un diritto da difendere, Sepúlveda ha parlato di come ha iniziato a scrivere per i ragazzi. Il primo romanzo che l’ha confermato come autore per l’infanzia è stato Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, nato dalla necessità dello scrittore di scrivere qualcosa per i bambini che non si rivolgesse a loro come se fossero degli idioti. Perché per lui i bambini sono delle “persone piccole” con poca esperienza, e quando si scrive per loro bisogna farlo certo in modo semplice, ma non per trattarli da stupidi, per aiutarli invece a sviluppare l’immaginazione.

L’incontro si è chiuso con gli auguri di Sepúlveda a Ravenna per la candidatura a Capitale Europea della Cultura 2019 e lo Scrittura Festival proseguirà per tutto il mese di maggio con altri grandi scrittori come Siti, Malvaldi e Lilin.

Un’ora di conversazione è volata troppo in fretta, grazie alle doti affabulatorie di Sepúlveda, che si è confermato un grande narratore e che ha incantato e divertito il pubblico con i suoi modi spontanei e con il suo italiano vivo, musicale e dal sapore esotico.

**Tutti i romanzi citati sono pubblicati da Guanda e, a eccezione di Un’idea di felicità, sono stati tradotti da Ilide Carmignani.

È così che la perdi. Nove racconti su amore, sesso e immigrazione

Junot Díaz, È così che la perdi, Mondadori

Junot Díaz, È così che la perdi, Mondadori

Eccomi tornata con i consigli della (ex) libraia. Anche se personalmente non amo molto leggere racconti, oggi vorrei proporre proprio una raccolta di short stories, È così che la perdi, di Junot Díaz, dominicano naturalizzato statunitense. Scrivere short stories è un’arte difficilissima, che non tutti gli scrittori sanno dominare. Non è semplice, infatti, riuscire in poche pagine a sviluppare il nucleo di una storia e delineare e caratterizzare in modo efficace dei personaggi. Non è un caso che i più rinomati autori di questo genere si siano quasi sempre limitati a esso, come Raymond Carver e George Saunders, considerati maestri del racconto.

È così che la perdi (This Is How You Lose Her, Riverhead Books), edito nel 2013 dalla Mondadori con la traduzione dall’inglese di Silvia Pareschi, raccoglie nove racconti che ruotano attorno allo stesso personaggio, Yunior, forse alter ego dell’autore, dominicano immigrato con la famiglia negli Stati Uniti. Continua a leggere